La morte di Antonio Pennacchi, l’operaio-scrittore

pennacchi

È morto Antonio Pennacchi, operaio che divenne scrittore. E che scrittore! Mai banale, mai scontato, mai politicamente corretto. Pennacchi è stato uno scrittore straordinario e anticonformista che ha saputo rendere originale la sua vita come la sua opera.

Uno scrittore che, anziché salotti mondani e redazioni culturali, continuava a frequentare fabbriche e campagne. Tant’è che ha voluto sempre cantare il lavoro, la fatica, la vita degli operai e dei contadini, degli ultimi, dei dimenticati dalla Storia. Di tutti coloro che sono stati lasciati nell’ombra da un Paese lanciato alla febbrile rincorsa del brillante sogno americano, in economia come in politica.

Certo, le sue idee erano di destra. Ma di una destra particolare, tutta sua, tanto anarchica e confusa sul piano politico quanto vitale e suggestiva per via di una aderenza sentimentale alla realtà sociale. Per cui è inutile, oltre che sbagliato, cercare di etichettarlo ideologicamente.

La straordinaria umanità

La sua sensibilità lo portava del resto ad indagare la natura degli uomini più che le loro idee. L’umanità così com’è, con il suo viscerale attaccamento alla vita ed il suo carico di difetti e passioni, lo intrigava e lo interessava. Ed è proprio questa umanità, impegnata nel doloroso confronto con la durezza e l’ineluttabilità del divenire storico, che Pennacchi ha voluto raccontare nei suoi libri. Due dei quali, sopra tutti gli altri, mi hanno fortemente colpito ed emozionato: «Canale Mussolini» e «Il fasciocomunista».

Il primo libro narra, attraverso una saga familiare, l’epopea di quelle genti (provenienti principalmente dal Veneto e dall’Emilia-Romagna) che popolarono e coltivarono le terre pontine bonificate dal regime fascista. Scritto con un linguaggio che omaggia sapientemente il dialetto, tratteggia un affresco corale di ampio respiro malinconicamente illuminato da una sorta di realismo magico.

Il secondo libro narra invece la formazione politica di due fratelli: uno che si divide tra nostalgie fasciste e aspirazioni comuniste. L’altro che abbandona il Seminario per adorare quel crudele dio della Rivoluzione (annunciata da comunisti insurrezionalisti) che esigeva sacrifici di sangue e di vite. È forse il più bel racconto sui terribili “anni di piombo”, il cui lascito ha segnato profondamente un’intera generazione e condizionato pesantemente le nostre istituzioni democratiche.

Il riscatto delle storie minori

Due libri insomma che, riscattando storie minori, interpellano la grande Storia ufficiale troppo pronta ad ignorare o dimenticare cose e fatti. Non deve perciò stupire se poi il sentenzioso e rancoroso mondo della cosiddetta cultura abbia cercato di emarginare Pennacchi, considerandolo ingombrante e difficilmente classificabile.

Anche se la condanna alla solitudine non gli ha impedito di avere un nutrito seguito di lettori. E per me, che amo i solitari e gli irregolari, leggere Pennacchi è stato un piacere dei sensi e della mente. Per il godimento che la sua scrittura mi ha procurato; e per i pensieri e gli interrogativi che i suoi racconti hanno sempre suscitato in me. In fondo, scrivere è facile. Difficile, semmai, è scrivere bene e raccontare bene storie che ti inducono a riflettere. Antonio Pennacchi sapeva farlo.

 

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