La Cina vuole l’egemonia. Soffriremo la loro crisi come quella del 1929

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Federico Rampini, naturalizzato americano (oggi abita tra New York e la California), ha vissuto per anni in Cina, dove è stato corrispondente per La Repubblica, di cui è editorialista. Per Mondadori ha appena pubblicato un libro il cui titolo dice già tutto: Fermare Pechino.

Visto quello che sta succedendo sembra quasi uno slogan azzeccato. Quale è la ragione più forte per cui dobbiamo temere Pechino?

«Perché con Xi Jinping la Cina ha gettato la maschera, non nasconde le sue ambizioni egemoniche, ostenta un enorme complesso di superiorità verso l’Occidente, minaccia e ricatta ogni paese già scivolato in una situazione di dipendenza economica (dai vicini asiatici all’Australia, dai Balcani fino all’Europa centrale). Perché vuole monopolizzare le tecnologie del futuro, a cominciare dall’auto elettrica. Perché a Hong Kong ci ha fatto vedere cosa può accadere a chi finisce dentro la sua sfera d’influenza».

L’ultimo virus in arrivo dalla Cina ha a che fare con il settore immobiliare. Il crac del colosso Evergrande potrebbe trasformarsi in un rischio per l’intera economia globale.

«Evergrande è la punta dell’iceberg, il boom cinese degli ultimi trent’anni è stato drogato anche da fenomeni speculativi e una overdose di debiti. Se nel 2008-2009 i mutui subprime americani fecero crollare Wall Street e contagiarono il mondo intero, è fisiologico che una delle prossime crisi globali debba nascere in Cina. Dobbiamo augurarci che l’eventuale crac cinese avvenga prima che questa economia abbia sorpassato l’America, e prima che il renminbi sia diventato un vera moneta a status internazionale. Comunque soffriremo tutti, quando arriverà il 1929 cinese».

In più ci sono i colli di bottiglia logistici, la guerra per le materie prime, la lotta senza quartiere per brevetti e tecnologie…

«Viviamo una transizione complicata e pericolosa. Ancora fino a ieri l’America e la Cina erano gemelle siamesi, con un livello di simbiosi avanzatissimo, una divisione dei compiti e una complementarietà. Non tutto è scomparso, anzi. Quelli che nel libro chiamo i Trenta Tiranni, cioè i poteri forti del capitalismo americano che hanno fatto favolosi affari con la Cina (da Apple a Goldman Sachs a General Motors), continuano ad essere una quinta colonna filo-cinese nel cuore dell’America, e si oppongono a un decoupling o divorzio delle economie. Però in molti campi i legami sono entrati già in crisi, assistiamo a una deriva dei continenti che è il preludio a un nuovo capitolo di storia, un’economia un po’ meno globalizzata, con catene produttive meno dilatate, anche per motivi di sicurezza, militare o sanitaria».

La sua tesi di fondo è che siamo di fronte a una battaglia tra due sistemi di valori, uno dei quali (il nostro) ha perso ogni certezza…

«Questa è la debolezza dell’Occidente che mi spaventa di più. Nel libro racconto sulla base di esperienze personali, inclusi tre figli adottivi in Cina il sincero patriottismo che anima tanta parte dei giovani cinesi. Aggiungo una descrizione del confucianesimo dei Millennial: spirito di sacrificio, senso del dovere verso la comunità. In America, vedo lo specchio rovesciato. Mezza America di destra pensa che abbiamo un presidente illegittimo, un usurpatore, e qualche frangia estrema ha tentazioni eversive. A sinistra, la meglio gioventù descrive l’America come l’Impero del Male, l’inferno del razzismo, della xenofobia, del sessismo. Mentre Biden dovrebbe affrontare la sfida con Xi Jinping, i suoi pensano che il problema è l’America».

Come se ne esce?

«Io cerco di raccontare il mondo com’è, non come vorrei che fosse. Nel lunghissimo periodo non c’è gara. La Cina ha un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, 3.500 anni di storia, e per gran parte di quei millenni è già stata la civiltà più ricca e più avanzata. Fermare Pechino, in quest’ottica, è impossibile. Però esiste il breve periodo, quello che coincide con l’arco delle nostre vite. Il secolo americano non fu un’ascesa lineare, inciampò in gravi incidenti come la Grande Depressione. Quando la Cina sarà nei guai o farà mosse distruttive, dobbiamo contenerla e limitare i danni».

Il problema è però sempre lo stesso: trattare e fare affari distogliendo lo sguardo dai diritti umani o accettare un confronto duro, in cui si rischia di essere spiazzati dall’opportunismo di chi non si fa troppi problemi?

«Quando la Cina vuole rassicurarci, descrive se stessa come una potenza pacifica che vuole solo business, senza mescolarci la politica. Ma il giorno in cui il governo australiano pronunciò frasi sgradite (per esempio sul Covid) Pechino chiuse i suoi mercati rovinando interi settori economici dal vino ai minerali. Esempi simili potrei farli per Corea del Sud, Filippine. Perfino svedesi e norvegesi hanno subito castighi per aver difeso i diritti umani. Chi s’illude di poter praticare solo l’opportunismo degli affari, non sa i costi che pagherà».

Qualche tempo fa l’«Economist» scrisse che l’area più pericolosa del mondo era il Mar Cinese meridionale. È d’accordo?

«Ho intitolato un capitolo del mio libro: morire per Taiwan. Il giorno in cui la Cina deciderà d’invadere quell’isola, scopriremo la sua importanza. Controlla rotte navali da cui transita il petrolio verso il Giappone. Produce il 60% di tutti i semiconduttori mondiali. Ed è l’unico esempio di una democrazia cinese».

Dopo l’Afghanistan la credibilità dell’Occidente è ai minimi e c’è chi dice che nemmeno l’America sarebbe in grado di difendere l’isola.

«Purtroppo lo dice anche il comandante delle forze armate Usa nell’Indo-Pacifico. Ha annunciato che forse fino al 2027 i rapporti di forze consentirebbero agli americani di difendere Taiwan, poi non c’è speranza. Ma in quest’ottica aver chiuso la guerra infinita in Afghanistan era la cosa giusta da fare».

Il caso dei sommergibili ha seminato altra discordia tra i Paesi occidentali. Come la vedono, secondo lei, i dirigenti di Pechino?

«I cinesi sono felici che Emmanuel Macron faccia l’offeso, e semini confusione in Europa con le sue grottesche denunce. La Francia, non l’Europa, ha perso un contratto da 50 miliardi per fornire all’Australia dei sottomarini obsoleti. L’America li sostituisce con sottomarini a propulsione nucleare che hanno autonomia lunghissima e sono di difficile reperibilità da parte del nemico. È un passaggio indispensabile per reagire all’espansionismo militare della Cina in tutta l’Asia. Se l’Europa non c’è, nel teatro strategico dove si gioca il destino del mondo, è solo colpa sua».

 

Fonte: Angelo Allegri ilgiornale.it

 

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