Il politicamente corretto incastra Jessica Rabbit

Continua la censura nel mondo Disney

Jessica Rabbit

Jessica Rabbit cambia veste.

La donna sexy e fatale raffigurata con i lineamenti e le curve di Rita Hayworth e con la voce roca e sensuale di Kathleen Turner, non sarà più una donna dalla sessualità esplicita e prorompente, e soprattutto non sarà più dipinta come una vittima.

Da oggi, nel grande parco giochi di Anaheim (California), dove una delle attrazioni era un tour lungo il quale i visitatori potevano seguire ogni tappa del famoso film di Robert Zemeckis “Chi ha incastrato Roger Rabbit” (1988). Sino a trovare Jessica imprigionata nel bagagliaio di una macchina, ci sarà un cambiamento.

Al posto di Jessica Rabbit ci saranno i barili di acido con cui il perfido giudice Morton scioglieva i personaggi animati.

Diventerà lei stessa un’investigatrice privata, titolare della sua agenzia, impegnata nella lotta contro il crimine che colpisce la Los Angeles del 1947.

 Cambierà anche vestiti

Indosserà un impermeabile, tipico indumento degli investigatori privati, che la renderà anche in questo allo stesso livello di Eddie Valiant. L’obiettivo? Allontanare il più possibile le ennesime accuse di sessismo, maschilismo e non solo.

Questa, infatti, è solo l’ultima di una lunga serie di accuse rivolte alla casa di Topolino che, con 26 premi Oscar su 59 candidature, non è solo la personalità più premiata della storia del cinema, ma anche forse la più discussa.

Non dimentichiamo quando è stata accusata di promuovere un bacio non consensuale nella favola di Biancaneve. Oppure quando montò la polemica perché il lupo de I tre porcellini, nella scena in cui si traveste da venditore di spazzole, indossava una maschera da mercante ebreo.

Dopo l’uscita la scena fu modificata, ma le accuse di antisemitismo verso Disney erano già partite.

Si è parlato di razzismo disneyano anche quando si è pensato a una delle immagini dei corvi neri di Dumbo che sono stati identificati come caricature dei lavoratori delle piantagioni.

Essi cantano, fra l’altro, “lavoriamo come schiavi”. E il loro capofila è chiamato Jim Crow, come le omonime leggi che crearono e mantennero la segregazione razziale negli Usa fino al 1964.

Sempre per quanto riguarda Biancaneve, la scena in cui i nani si mettono uno sopra l’altro fu bollata da Disney durante una riunione privata con l’espressione “una pila di ne**i”.

Per non parlare de I racconti dello zio Tom (Song of the South, 1946). Il film è stato definito da Bob Iger, attuale presidente esecutivo della Walt Disney Company, un esempio di “razzismo imbarazzante”.

Lo stesso Walt Disney, all’uscita del film, si trovò a rispondere alle accuse di revisionismo mosse dai comitati civili antisegregazionisti.

Ma non finisce qui

In epoca recentissima la piattaforma di streaming Disney+ ha deciso di bloccare la visione di alcuni classici. Come Peter PanDumbo e gli Aristogatti, nella sezione dedicata ai bambini.

L’accusa? Diffondono stereotipi dannosi. Peter Pan ha definito i membri della tribù indiana di Giglio Tigrato “pellirosse”. gli Aristogatti hanno raffigurato il gatto siamese Shun Gon, uno della cricca di Romeo, con tratti caricaturalmente orientali.

Occhi a mandorla, denti all’infuori e bacchette usate addirittura per suonare.

Per non parlare della strofa di una canzone di Dumbo.“E quando poi veniamo pagati buttiamo via tutti i nostri soldi” – giudicata da molti una grave mancanza di rispetto alla memoria degli schiavi afroamericani al lavoro nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti.

I titoli, tuttavia, continuano a essere disponibili per il pubblico sopra l’età minima, seppure con una scritta di avvertenza.

“Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazioni o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo”.

La decisione è stata presa da un gruppo di esperti esterni alla compagnia californiana i quali hanno dovuto valutare se il contenuto “rappresentasse o meno un pubblico globale”.

Da m.huffingtonpost.it

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