IL GREEN DEAL: UNA FOLLIA POLITICA CHE STA MASSACRANDO L’INDUSTRIA E IL LAVORO EUROPEO

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IL GREEN DEAL: UNA FOLLIA POLITICA CHE STA MASSACRANDO L’INDUSTRIA E IL LAVORO EUROPEO

La retorica green ha dominato per anni la scena politica europea, raccontando che i vincoli sulle emissioni e il divieto delle auto a motore termico dal 2035 fossero il frutto di un consenso scientifico solido e condiviso.

La verità, oggi sempre più evidente, è un’altra: non è stata la scienza a fissare quelle scadenze, ma la politica. Una politica che ha preso ipotesi teoriche e condizionate e le ha trasformate in obblighi giuridici, ignorando deliberatamente la fattibilità industriale, l’impatto sociale e la competitività economica del continente

La recente retromarcia dell’Unione europea, con l’apertura a una revisione del divieto assoluto dei motori termici e il passaggio da un azzeramento totale delle emissioni a un obiettivo del 90 per cento, non rappresenta una vittoria ambientale né una soluzione strutturale.

È piuttosto l’ammissione implicita di un fallimento politico

Lo ha detto chiaramente il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, parlando di una breccia nel muro dell’ideologia e della necessità di rivedere tempi e modalità di una transizione che, così concepita, stava travolgendo l’industria europea.

Perché i numeri non si piegano alla propaganda.

L’industria automobilistica europea dà lavoro, direttamente e indirettamente, a circa 13–14 milioni di persone, pari a quasi il 7 per cento dell’occupazione complessiva dell’Unione

Solo nella produzione diretta di veicoli e componenti sono impiegati oltre 2,5 milioni di lavoratori. Attorno a questo settore ruota un indotto vastissimo fatto di logistica, manutenzione, ricerca, servizi, commercio e piccola manifattura.

Eppure, mentre la politica parlava di “transizione inevitabile”, il conto è arrivato puntuale.

Decine di migliaia di posti di lavoro sono già stati persi, soprattutto nella filiera dei componenti tradizionali. Solo nell’ultimo anno si stimano oltre 50 mila occupati in meno tra fornitori e subfornitori

Grandi gruppi industriali europei hanno annunciato migliaia di licenziamenti nelle divisioni automotive, non per arretratezza tecnologica, ma per il crollo della domanda e per l’incertezza normativa generata da scadenze irrealistiche.

Il punto centrale, che la sinistra europea continua ostinatamente a non voler ammettere, è che il mercato non può essere sostituito per decreto. I cittadini non vanno spinti con incentivi artificiali ad acquistare una tecnologia in cui non credono: devono essere convinti dalla sua utilità, affidabilità e convenienza.

Quando arrivarono i telefoni cellulari, nessuno impose bonus per comprarli né penalizzò chi produceva telefoni fissi

Il progresso si affermò perché era migliore, non perché era obbligatorio.

L’insuccesso evidente dell’auto elettrica in Europa dimostra proprio questo. Nonostante miliardi di euro di incentivi pubblici, la domanda resta debole, i costi elevati, le infrastrutture insufficienti e la filiera fragile. Nel frattempo, la concorrenza cinese avanza, forte di costi di produzione inferiori e di una strategia che ha semplicemente spostato l’inquinamento dalle metropoli ai luoghi di produzione dell’energia e delle batterie.

Un risultato cosmetico, non ambientale

La verità più scomoda è un’altra ancora. Anche ipotizzando che domani tutte le auto europee diventino elettriche, la riduzione dell’inquinamento globale sarebbe stimata attorno allo 0,7 per cento. Valeva davvero la pena sacrificare un settore industriale strategico, centinaia di migliaia di posti di lavoro e la competitività europea per un impatto globale così marginale?

La sinistra che ha sostenuto queste scelte era consapevole di questi costi?

Se lo era, la sua responsabilità politica è enorme. Se non lo era, la sua incompetenza lo è ancora di più.

Il rinvio del 2035 e l’introduzione di margini di flessibilità non salvano l’industria europea, ma evitano almeno il collasso immediato.

È un primo passo, insufficiente ma necessario, per riportare il dibattito dalla dimensione ideologica a quella della realtà

L’Europa ha bisogno di neutralità tecnologica, di una politica industriale seria, di investimenti in innovazione e non di divieti calati dall’alto.

Il Green Deal, così come è stato concepito e imposto, non è stato un piano di sviluppo, ma un atto di fede politica.

E oggi sono lavoratori, imprese e territori a pagarne il prezzo. Il futuro non si costruisce con gli slogan, ma con il lavoro, la competitività e il rispetto della realtà economica

È giunto il momento di dire basta alla follia Woke, di svegliarsi veramente e di punire elettoralmenre gli ecodementi che la propongono facendoli vedere per quello che sono, cioè agnelli alla vigilia di Pasqua convinti della bontà del cuoco.

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