Il caso Cocci: ricatti, ipocrisie e il fantasma della massoneria
La vicenda che coinvolge Tommaso Cocci, avvocato e esponente di Fratelli d’Italia a Prato, è diventata molto più di un caso personale.
È il riflesso di un sistema politico dove l’arma del ricatto sostituisce il confronto delle idee e dove vecchi pregiudizi, come quello contro la massoneria, vengono usati in maniera strumentale per colpire un avversario
“Pedofilia, orge gay con droga e minori”: così titolano in fretta certi articoli, trasformando accuse infondate in verità agli occhi del pubblico. Si dimentica che Cocci è parte lesa, che per mesi è stato ostaggio di un profilo falso costruito per ricattarlo.
Ha commesso l’errore di fidarsi e di inviare una foto privata, ma questo non cancella un fatto: il reato lo ha commesso chi lo ha ricattato, non lui.
La questione centrale non è una foto, ma chi ha deciso di fare politica con mezzi ricattatori. Un metodo che ha il sapore della mafia: colpire la sfera personale, manipolare la debolezza privata e usarla per eliminare un avversario politico. Se la città accetta questo gioco, non è Cocci a perdere: è la politica tutta
Nella storia è entrata a gamba tesa la massoneria, trattata dai soliti commentatori come una sorta di marchio infamante. Ma davvero, nel 2025, pensiamo che l’appartenenza a una loggia sia sinonimo di colpa morale?
Vale la pena ricordarlo: fu il fascismo a vietare la massoneria mentre grandi figure democratiche – come Gramsci – la difesero proprio in nome della libertà di coscienza.
In Toscana la massoneria ha visto protagonisti uomini come Giosuè Carducci, premio Nobel e gloria della nostra letteratura; Giuseppe Mazzoni, patriota pratese e protagonista del Risorgimento; Ferdinando Martini, scrittore e ministro liberale; Gaetano Pieraccini, illustre medico e sindaco di Firenze, così come il compianto Lando Conti, ucciso dalle Brigate Rosse; senza dimenticare Ernesto Nathan, sindaco di Roma, spesso ospite in Toscana e riferimento del pensiero progressista italiano
Il caso Cocci ci impone una riflessione più profonda: la politica non può trasformarsi in un tribunale della vita privata. C’è un confine invalicabile che va rispettato, ed è quello tra la sfera intima della persona e la responsabilità pubblica dell’amministratore. Su questo confine si fonda l’etica pubblica, che non è e non può essere il moralismo delle insinuazioni.
Se smarriamo questa distinzione, la democrazia si riduce a spettacolo di gogna e la politica diventa un’arena di denigrazione. Tornare ai fondamentali significa ricordare che la credibilità di un sistema politico non si misura nel colpire l’avversario nella sua sfera personale, ma nel costruire regole, visioni e progetti che riguardano la comunità. Solo così l’etica pubblica ritrova dignità, e la politica torna a essere servizio e non macchina del fango.
Erasmo Collini
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