Gruber, non te lo perdonerò mai: mi costringi a difendere Gianfranco Fini
C’è una cosa che non avrei mai pensato di dover scrivere: mi trovo a difendere Gianfranco Fini. E la colpa – o il merito, dipende dai punti di vista – è tutta di Lilli Gruber.
Non ce la faccio più a seguirla. Non tanto per le sue opinioni – che ha tutto il diritto di avere – quanto per l’arroganza con cui vengono presentate come verità indiscutibili
Gruber, come certa sinistra che ora si accorge improvvisamente che Fini forse “non era così male”, è l’emblema di un giornalismo che ha smesso di confrontarsi per diventare pura predicazione. Lei non intervista: sentenzia. Non ascolta: filtra. Non apre il dibattito: lo chiude prima che inizi.
E qui nasce l’equivoco che troppi fingono di non vedere: essere giornalisti significa cercare, non imporre
Significa aprire spazi, non chiuderli. Un giornalista può avere idee politiche, certo. Ma non può diventare il portavoce di un’ideologia, l’altoparlante di una parte, il sacerdote di una chiesa laica che predica dogmi progressisti e scomunica tutto il resto.
Lo stile dominante è quello del monologo. Il microfono si spegne appena l’ospite devia dallo script previsto. La contraddizione è censurata. Il dubbio non è ammesso.
Il risultato?
Una narrazione in stile Pravda, dove la realtà è quella stabilita dal nuovo “ministero della verità” in salsa woke.
E non è nemmeno più satira. È ortodossia. Una liturgia mediatica in cui il pensiero alternativo viene epurato, ridicolizzato o ignorato. Mentre chi si uniforma viene celebrato come esempio di equilibrio e saggezza.
Così, anche Fini – a lungo descritto come l’apostolo del neofascismo “ripulito”, poi come il traditore, infine come il desaparecido – ora viene quasi rivalutato da certi ambienti progressisti solo perché, nel frattempo, il mondo è scivolato ancora più a sinistra, e Fini sembra persino moderato
Ma questa è un’altra ipocrisia. Lo stesso mondo che lo ha spinto fuori dalla scena politica, ora si scopre nostalgico del suo aplomb. Troppo comodo.
E allora torniamo a Lilli Gruber. Non deve smettere di parlare, ci mancherebbe. Ma sia chiara una cosa: o è una giornalista, o è una politica. Se sceglie la seconda strada, lo dica apertamente. Continui pure a fare la sua trasmissione, ma con trasparenza: come opinione, non come verità istituzionale.
Perché la libertà di stampa – quella vera – non è difendere sempre gli amici e distruggere i nemici. È dare voce anche a chi non la pensa come te. È ascoltare. È – Dio non voglia – anche mettere in dubbio sé stessi
E oggi, più che mai, ci servono giornalisti. Non sacerdoti.
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