Giggino o furb

Luigi Di Maio e l'arte di sapersi riciclare

Giggino o furb. Il ministro degli esteri affettuosamente soprannominato Giggino, alias Luigi Di Maio è una persona estremamente capace di galleggiare in politica. Lo ha chiaramente dimostrato.

L’inserito

Da antisistema a beneficiario del sistema il passo spesso è breve. E tra lo stare fuori il palazzo, e preferire stare dentro il palazzo, il passo è ancora più breve.
La retorica anticasta ha fatto fortuna in Italia. E spesso utilizzarla è utile per entrare in connessione con un elettorato stanco dei privilegi della politica. Ma spesso diventa incoerenza. E coloro i quali urlavano contro la vecchia politica si adattano ad essa benissimo.

Da movimentista a politico

Il movimentismo non scalda più il cuore di Di Maio. L’ex esponente pentastellato, anticasta, contrario alle regole del parlamentarismo che imbriglia la sovranità popolare. L’uomo che si infervorava per il vincolo di mandato, per il divieto di eccedere il doppio mandato, oggi è approdato ad altre convinzioni. Si è mutato in un politico perfettamente in linea con la tradizione del parlamentarismo italiano.

Oggi non si fa più chiamare cittadino, alla stregua di un giacobino dei nostri tempi. Oggi il titolo di eccellenza, le scarpe lucide che scricchiolano ed i vestiti di alto livello hanno preso il posto della protesta.

Ormai non ama più parlare di cambiamento ma di responsabilità. Il Partito Democratico non è più il partito di Bibbiano. Magari lo è ancora. Ma meglio non dirlo.

Anche perché il PD oggi non è la natura matrigna. È quella natura, intesa come tale perché sostanza della degenerazione partitocratica italiana, che può beneficiarlo di un seggio. Accidenti se è una natura benigna. Che può non rimandarlo a lavorare. O meglio mandarlo per la prima volta magari.

Il PD è quella manna dal cielo che gli consente, pur avendo creato il nulla, un partito pieno di onorevoli ma irrisorio nei sondaggi, di restare a galla.

Ccà nisciuno è fesso

Anche Masaniello da tribuno di popolo, volle sedersi al tavolo del potere. In fondo che c’è di male a restare in sella? Lui è un giovane. O almeno si sente tale. Si vede come una risorsa per la Repubblica. Un cambiamento.

In verità un cambiamento più personale, che istituzionale. A me appare come l’espressione di coloro i quali vedono nella loro ascesa un elemento di novità, non tanto perché di rottura con la tradizione precedente, ma perché riguarda loro stessi.

Adesso tocca a loro. E questo dovrebbe essere, nella loro mentalità, una scossa che inferfora la nazione intera.

 

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