Dentro la foresta dei suicidi: l’orrore nel mar nero di alberi

La prima cosa impossibile da dimenticare di Aokigahara è il silenzio. La quiete è desertica. In alcuni punti stipati tra i 3mila ettari di conifere non riesce ad intrufolarsi nemmeno il sibilo del vento. Ogni respiro, anche il più flebile, somiglia a un ruggito. Sotto i rami caduti e le foglie in decomposizione c’è un pavimento fatto di roccia vulcanica, agglomerata dalla massiccia eruzione del Monte Fuji (864). La pietra è dura e porosa, piena di piccoli fori che mangiano il rumore. Anche per questo le radici non riescono a penetrare in profondità e si arricciano sulla lava. Gli alberi sono cresciuti così vicini l’uno all’altro che la maggior parte del tempo lo si trascorre in penombra. Aokigahara è una foresta che inghiotte. Suoni, luci, colori. Vite, persino. Già, perché Jukai (il “mare di alberi”, appunto) è tristemente nota non già per la sfrenata serenità della natura selvaggia alle pendici del sacro Monte, ma perché è universalmente conosciuta come “la foresta dei suicidi”. Nessun altro luogo al mondo a parte il Golden Gate Bridge di San Francisco vanta un numero più alto di persone che lo scelgono come luogo prediletto per rendere la propria vita al Creatore. Le statistiche variano di anno in anno, ma è certo che, a partire dal 1950, si siano verificati in media 30 suicidi ogni 12 mesi.

Che la foresta sia diventata l’ultimo luogo di riposo di tanti, quindi, non è più un segreto per nessuno. Anzi. Le autorità hanno piazzato all’ingresso dei principali sentieri di accesso alcuni cartelli con inviti a “riconsiderare” le proprie scelte e “pensare con attenzione” al destino dei propri figli e della propria famiglia. Il problema è che non sempre riescono ad essere persuasivi. Così, nel tentativo di evitare quantomeno l’emulazione, negli ultimi anni hanno smesso di diffondere i numeri ufficiali dei corpi senza vita recuperati tra i cespugli (lo choc maggiore ci fu nel 2004 quando si registrò un picco di 108 cadaveri rinvenuti). Numeri che, peraltro, non saranno mai definitivi. Perché sebbene l’impiccagione sia la causa di morte più comune e anche la più “visibile” al piccolo esercito di agenti di polizia e volontari che dagli anni Settanta setacciano ogni angolo di foresta per recuperare i corpi, molti altri scelgono tecniche più “statiche” come l’overdose da farmaci, il che espone al rischio di perdersi per sempre i tra i sempreverdi o diventare preda di qualche animale. Di certo ad Aokigahara, nessuno, se volesse, farebbe fatica a scomparire nel nulla.

All’origine della leggenda

Ma perché così tante anime in pena scelgono proprio Jukai come luogo prediletto per terminare la loro vita? Nonostante le sue caratteristiche un po’ tetre è un paradiso per chi ama il trekking e le escursioni, viene scelto anche dai docenti come sentiero di gite per le scolaresche, è immerso nella regione dei Cinque Laghi, un’attrazione turistica con pochi eguali in tutto il Giappone nota non solo per le viste del Monte Fuji ma anche per le grotte di ghiaccio e le poderose fioriture di ciliegi in primavera. Eppure, si è pian piano trasformato in un cimitero a cielo aperto, un set perfetto per i servizi fotografici di Halloween (che nel Sol Levante è una mania seconda solo al mondo anglosassone) e per i film dell’orrore. Persino per episodi dissacranti, come quello del 31 dicembre 2017, quando il vlogger Logan Paul si avventurò nella foresta insieme ad alcuni amici e caricò un video che ritraeva le loro reazioni facete alla vista di un cadavere appeso, con conseguente valanga di critiche. In generale, il motivo esatto per cui così questa foresta per svanire nel nulla resta un mistero, anche se di ipotesi ne circolano parecchie.

Le leggende più antiche fanno riferimento a un’antica pratica diffusasi in epoca feudale, l’ubasute, il gesto volontario di lasciar morire un anziano. In particolari situazioni di ristrettezze economiche, infatti, non erano rari i casi di famiglie in cui, di comune accordo, si accompagnava il membro più longevo del nucleo in qualche luogo remoto per abbandonarlo a morte certa, pur di evitare che gravasse sul resto della famiglia. Da questi episodi di senicidio, molti dei quali riferiti proprio ad Aokigahara, le storie divennero mito, e nel corso dei decenni i visitatori sostenevano di aver visto con i loro occhi gli yūrei, gli spiriti degli anziani abbandonati agli stenti. Negli anni Sessanta, poi, venne dato alle stampe il romanzo di Seichō Matsumoto, Kuroi Jukai, spesso tradotto come Il Mar Nero degli alberi. Il libro racconta di una storia d’amore travagliata che termina con i due amanti morti suicidi proprio ad Aokigahara, un riferimento stavolta diretto a un’altra pratica di morte volontaria giapponese: lo shinjū. È un concetto molto simile a quello occidentale di omicidio-suicidio, anche se non fa riferimento solo alla sfera amorosa (di cui è esempio il tragico epilogo della vita del grande scrittore nipponico Osamu Dazai) ma anche a quella familiare in generale, che comprende persino i casi di infanticidio (nella cultura giapponese una madre suicida che non toglie prima la vita alla propria prole è considerata abominevole). In tempi più recenti lo shinjū “consenziente” si è diffuso anche tra sconosciuti, che vengono in contatto su internet. Un altro libro molto popolare, poi, rasenta davvero l’istigazione: si intitola Il Manuale Completo del suicidio, di Wataru Tsurumi, in cui, per tutte le ragioni esposte poc’anzi, definisce Aokigahara come il luogo perfetto per morire.

 

L’estrema solitudine

Tutti retroscena che contribuiscono a togliere magia e accrescere il pathos mentre ci si avventura tra gli alberi. Perdersi, in effetti, è facilissimo, specie nei giorni successivi al passaggio del tifone Hagibis, che ha provveduto a sparigliare qua e là rami e foglie confondendo i sentieri più battuti. Il segnale del cellulare è il primo a darsela a gambe, e in un’ora di traversata a passo svelto si incontrano un paio di persone ancora vive. Quando va bene. Alcuni scorci sono davvero indimenticabili, ma le storie, i miti, le leggende e i dati oggettivi renderebbero paranoico anche il più temerario degli escursionisti. Sarà la suggestione, ma in effetti in totale solitudine ogni rumore remoto somiglia molto ad un sussurro. Pur avendo la fortuna di non incrociare corpi senza vita, ad Aokigahara è davvero facile imbattersi in qualche traccia. Gli aspiranti suicidi scelgono di allontanarsi più possibile dai sentieri, ma qualcosa dietro di sé resta sempre. Un biglietto, un cappio, uno stivale, una bambola, una cartina. Molto più frequentemente, qualche striscia di nastro adesivo posta a terra. Per ritrovare la via d’uscita nel caso in cui, al momento decisivo, non si avesse il coraggio di andare fino in fondo.

Una piaga sociale

Il tasso di suicidi in Giappone resta tra i più alti del mondo sviluppato. Nel 2016 si sono registrati 17,3 casi ogni 100mila persone, peggio solo del dato della vicina Corea del Sud. Come in quasi tutti i Paesi del mondo la maggior parte delle vittime sono uomini. Sebbene la cultura della morte volontaria sia ancora oggi parte integrante della vita sociale giapponese, rispetto agli harakiri dei guerrieri samurai e agli ubasute dell’epoca feudale, in tempi recenti sono i giovani ad essere i più colpiti. Tra le persone di età compresa tra i 15 e i 39 anni in tutto Giappone il suicidio è la principale causa di morte, superiore alle vittime del cancro e degli incidenti stradali messe insieme. Nel 2018 è stato registrato il peggior tasso di suicidi tra i minori di 20 anni di sempre, legato con ogni probabilità alle pressioni derivanti dalla performance scolastica, fonte primaria di inclusione sociale e di soddisfazione familiare.

Aokigahara, comunque, una seconda opportunità la offre a tutti. Quella di guardarsi intorno, cercare la luce tra le chiome fitte, intravedere il maestoso profilo del Monte Fuji o la limpidezza delle acque del lago Sai e provare a pensare, a un passo dall’oblio, che in fondo il mondo non è poi così male.

Daniele Dell’Orco per www.ilgiornale.it

 

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