Da “apposto” a “io e te”: i 10 errori più comuni nella lingua italiana

Apposto

Vi è mai capitato di veder scritto «qui tutto apposto» e di provare un fastidio paragonabile al rumore delle unghie che graffiano la lavagna?

Se sì, allora vuol dire che in voi è, appunto, tutto a posto.

Se poi non resistete, e decidete di correggere il vostro interlocutore, state attenti. Potreste beccarvi l’accusa di essere dei grammar nazi, cioè dei «nazisti della grammatica».

Io lo ammetto: a volte sento l’impellente necessità di far notare agli altri i loro scivoloni linguistici.

Sono un grammar nazi? Boh, forse, non lo so. Io lo faccio per amore, non per vanagloria.

Chi conosce i suoi errori può correggersi e non fare figuracce.

E visto che vi voglio bene, ho deciso di rendervi edotti sui 10 errori più comuni della lingua italiana.

Che poi è la più bella del mondo.

I 10 errori più comuni nella lingua italiana

1. Apposto: se io voglio dire che «è tutto in ordine», allora devo scrivere «è tutto a posto». Cioè, appunto, al suo posto. Apposto, infatti, è il participio passato del verbo apporre, che usiamo per esempio quando vogliamo apporre la nostra firma su un documento. Se non credete a me, credete almeno alla Treccani. Al contrario, l’avverbio apposta, nel senso di azione compiuta «di proposito», è corretto. Quindi sì, si può scrivere «l’ho fatto apposta».

2. Affatto: ti piace essere preso per fesso? «Affatto». Ecco, se rispondete così, mi viene il dubbio che siate fessi per davvero. Perché l’avverbio affatto significa «interamente, del tutto», e ha pertanto un valore positivo, non negativo. Certo, questo utilizzo del termine è sempre meno percepito dai parlanti. Eppure, a volte il dubbio viene. Se non volete sbagliarvi, alla domanda «sei fesso?» rispondete con un sonoro «nient’affatto». In questo caso, vi prenderò sul serio.

Condizione non condimento

3. Conditio sine qua non: qui entriamo nel grottesco. Se vi imbattete in qualcuno che conosce il latino e cercate di impressionarlo con un pomposo conditio sine qua non, la figura di palta è assicurata. In latino, infatti, conditio significa «condimento». Esatto, tipo l’olio e l’aceto. E non c’entra assolutamente nulla con la «condizione» di cui volete parlare voi, che in latino si scrive condicio, con la «c». Del resto, pensateci: esiste una legge sulla par condicio, ma nessuna sulla par conditio. Un motivo ci sarà.

4. Una tantum: rimaniamo sul latinorum. Questa locuzione viene utilizzata troppo spesso nel significato di «una volta ogni tanto». Niente di più sbagliato: l’avverbio tantum, in latino, vuol dire «solo, soltanto, solamente». Di conseguenza, il significato corretto è «solo una volta». Nel concreto: se incassate un pagamento una tantum, non fatevi illusioni. Non vi daranno altro denaro.

5. Opportunità: messo da parte il glorioso idioma degli antichi romani, passiamo ora all’inglese. Che purtroppo sta distruggendo la nostra lingua. Questo possiamo osservarlo nell’utilizzo abusivo del termine opportunità. Per gli anglofoni opportunity significa «occasione, possibilità». Ma in italiano una cosa possibile non è necessariamente opportuna, e cioè «adatta alle condizioni del momento, alle necessità o al desiderio». Sputare in faccia a un nostro ospite è sicuramente possibile, ma di certo non è opportuno. Neanche un po’. Ecco perché, in questo caso, parlare di «opportunità» è del tutto… inopportuno!

Realizzazione

6. Realizzare: ecco un altro prestito dall’inglese che entra di diritto nel campionario degli errori (orrori) della lingua italiana. Nel nostro idioma nazionale, infatti, realizzare ha un significato molto preciso: «Far diventare reale, tradurre in realtà, attuare, avverare». In inglese, invece, il verbo to realize si traduce con il nostro «rendersi conto». Sono due cose completamente diverse. Pertanto, se dite «ho realizzato che Scanzi è un grande intellettuale», in realtà non avete realizzato nulla. Al massimo, avete realizzato un obbrobrio, questo sì.

7. Paventare. Tra gli errori più comuni nella lingua italiana, c’è anche l’uso ad minchiam del verbo paventare. Che vuol dire «aver paura, sentirsi intimorito». Di conseguenza, se un giornalista scrive «si è paventato che…» nel senso di «si è ventilato che…», vuol dire che questo giornalista avrà pure il tesserino del suo Ordine, ma rimane una capra. E ci sono ottime possibilità che lavori nella redazione di Repubblica o Piazzapulita.

8. Piuttosto che: io preferisco parlare un buon italiano piuttosto che fare figure di palta. Se anche voi siete di questo avviso, allora diffidate di chi utilizza il piuttosto che con valore disgiuntivo, nel significato cioè di «o, oppure». Come ci spiega la Crusca, si tratta «di una voga d’origine settentrionale, sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo». Eppure, proseguono i cruscanti, «non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o». Ecco, piuttosto che farvi prendere per fessi, fatevi coraggio e usate un poderoso, liberatorio «oppure».

Che?

9. Ché: Quando la congiunzione che viene usata nel significato di perché, è opportuno (ricordate?) scriverla con l’accento. E quindi ché. Un esempio semplice semplice: «Mi tolgo la giacca ché qui fa caldo». Oppure: «Spengo la televisione ché ora sta parlando la Murgia». A meno che non vi piaccia lo schwa, beninteso.

10. Io e te: questo ormai non viene quasi più calcolato tra gli errori della lingua italiana, anche perché il suo uso è assai diffuso. Ma se ci pensate bene, rimane un errore marchiano. Di più: la Treccani ci spiega che il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli definiva questa forma linguistica come «un toscanismo insopportabile». Il motivo? Il pronome io è soggetto, mentre te è complemento oggetto. Un’incongruenza che tutte le grammatiche italiane hanno sanzionato fino all’altro ieri. Se volete diventare cintura nera di lingua italiana, dovrete pertanto salire di livello. Bando all’«io e te», dunque: usiamo un più corretto «tu ed io». Così almeno fate felice Ascoli. E chissenefrega di Ascoli, direte voi, e avete perfettamente ragione. Del resto, i soliti linguisti con il monocolo ci ricordano a ogni piè sospinto che la lingua è in continua evoluzione. Questo è vero, nessuno lo nega. Ma ricordate anche che l’italiano non sarà mai un’opinione. Ed è giusto che sia così.

Valerio Benedetti

Fonte https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/dieci-errori-piu-comuni-lingua-italiana-217294/

 

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