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Basta giustificazioni: non è più tempo di ambiguità

di Alessandro Scipioni
14 Giugno 2025
In Attualità
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Basta giustificazioni: non è più tempo di ambiguità
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Basta giustificazioni: non è più tempo di ambiguità

Soprattutto perché la campagna d’odio non è più solo contro Israele, ma contro gli ebrei. Sarà pure surrettizia, camuffata dietro la retorica dei diritti umani e dell’anti-imperialismo, ma ormai con la scusa di attaccare Israele si droga l’opinione pubblica con una quantità di odio impressionante.

La narrazione unilaterale, faziosa, che descrive Israele come una potenza coloniale sta generando un clima tossico di pregiudizio che colpisce indiscriminatamente qualunque azione venga compiuta dagli ebrei, anche la più difensiva

Tocca dirlo chiaramente: la guerra è sempre orrenda, la politica di Netanyahu può essere oggetto di critica anche dura, ma qui siamo ben oltre. Qui si sta creando un terreno fertile per una nuova ondata di antisemitismo, mascherato da attivismo. Molti responsabili di questa deriva sono insospettabili: star di Hollywood, icone del politicamente corretto, attivisti del movimento woke che, con il loro pregiudizio ideologico, stanno dando nuova linfa all’idea – cara ai regimi dittatoriali del passato – di un’internazionale ebraica, di una rete oscura di potere, finanza e religione.

Un’idea che porta alla criminalizzazione sistematica degli ebrei come popolo

Israele viene così dipinto come “il male assoluto”, mentre si giustificano regimi oscurantisti e sanguinari come quello degli Ayatollah iraniani, che mandano a morte ragazzi e ragazze colpevoli solo di voler vivere liberi. Questo ribaltamento morale è pericolosissimo. Alimenta giustificazioni per azioni violente, per vendette cieche e brutali. È emblematico quanto accaduto negli Stati Uniti, dove due ragazzi sono stati uccisi da un uomo convinto di “vendicare la Palestina”.

Ma questa non è più una guerra contro Netanyahu. Non lo è mai stata davvero

Alcuni, come Marco Travaglio, hanno espresso critiche al governo israeliano distinguendo chiaramente tra la politica e lo Stato, tra il premier e il popolo. Il resto dell’opinione pubblica, invece, è ormai avvelenato da una narrazione tossica, che non criminalizza solo il governo, ma tutti gli israeliani, e spesso tutti gli ebrei, inclusi quelli che nel mondo chiedono solo di vivere in pace.

Se ci saranno attentati, sarà responsabilità di questa narrazione

Se correrà sangue in Europa, sarà colpa di chi continua a giustificare, coccolare, romanticizzare gli estremisti islamici integralisti, scambiandoli per “combattenti della libertà”.

No, Hamas non è un movimento di liberazione.

Non è composto da partigiani. È un’organizzazione terroristica, oscurantista, che rifiuta qualsiasi forma di compromesso e che non vuole uno Stato palestinese accanto a Israele: vuole la cancellazione di Israele. E finché la maggioranza del consenso palestinese si orienterà su Hamas, ogni discorso su “due popoli due Stati” rimarrà solo un’utopia.

Tutti i tentativi di pace sono stati sabotati

Tutti. Ogni volta che Israele ha teso la mano, ha trovato un muro. Spesso costruito dalla stupidità di certi intellettuali, incapaci di distinguere tra critica e complicità. Il caso più grave resta il rifiuto da parte palestinese della proposta avanzata nel 2008 dall’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert: una proposta che andava oltre le più rosee aspettative, persino per un leader come Arafat. Ma anche lì, la pace fu sabotata.

E sia chiaro: sono il primo a volere la pace. A sognare una Palestina democratica, capace di convivere accanto a Israele, di vederlo come un vicino, non come un nemico. Una Palestina libera dall’oppressione, ma anche dal fanatismo.

Ma oggi Israele si trova a fronteggiare l’estremismo islamico radicale, la penetrazione di gruppi come Hezbollah, l’influenza destabilizzante dell’Iran. In un contesto così fragile e pericoloso, abbiamo il dovere morale e politico, se vogliamo difendere la civiltà democratica e i valori occidentali, di schierarci dalla parte dell’unica democrazia del Medio Oriente. Di farlo senza ambiguità, chiedendo certo pace e diritti umani, ma pretendendo che tutto ciò sia garantito a partire dalla sopravvivenza di Israele

Il maggior ostacolo alla pace non è solo l’intransigenza di Hamas.
Il vero ostacolo è una cultura che ha giustificato, idealizzato, legittimato gli integralisti. Che ha scambiato Khomeyni per Che Guevara, lanciando fumo negli occhi di intere generazioni. Se l’Iran degli ayatollah non fosse stato raccontato come un “paradiso rivoluzionario” dai soliti ingenui innamorati del marxismo esotico, forse oggi avremmo meno sangue versato, meno giovani uccisi, meno odio da smaltire.

Dobbiamo cambiare rotta

Dobbiamo smetterla con la giustificazione automatica per chi impugna le armi in nome di una lotta “contro Israele” che troppo spesso è solo odio antiebraico mascherato. Solo così sarà possibile aprire uno spiraglio alla vera pace, fondata su due Stati – ma due Stati davvero, non uno Stato ebraico assediato e uno Stato terrorista.

L’attacco al cuore del potere iraniano da parte di Israele, per quanto destabilizzante e inquietante, segna un punto di svolta che non può essere ignorato. Spaventa, certo. Ma è anche il segnale di una capacità militare e strategica che ha permesso a Israele di decapitare i vertici militari – e in parte anche quelli politici – della Repubblica islamica. Non è solo un atto di forza: è un argine. Un argine contro l’espansione del fondamentalismo a guida sciita, che da anni cerca di penetrare nella regione con il sostegno a milizie, colpi di Stato, terrorismo e destabilizzazione.

Israele, agendo in questo modo, si è guadagnata – se non l’appoggio esplicito – almeno la neutralità di attori fondamentali come Turchia e Arabia Saudita. Senza questa tacita alleanza, nessuna operazione così chirurgica sarebbe stata possibile

Perché la verità è che nessuno nella regione vuole una bomba atomica nelle mani di una teocrazia, come aveva lucidamente affermato anche Barack Obama.

Una Repubblica islamica con capacità nucleari non è un elemento negoziabile: è una minaccia esistenziale, non solo per Israele, ma per l’intero Medio Oriente.

Ed è proprio per questo che oggi, dopo il ridimensionamento dell’apparato militare iraniano, si apre uno spiraglio diplomatico

Un Iran indebolito – ma non umiliato – può sedersi al tavolo delle trattative per firmare, come auspicava Donald Trump, un accordo sul nucleare più credibile, più vincolante.

Un intervento di terra? Irrealizzabile. Politicamente insostenibile per qualsiasi paese musulmano, anche per quelli che in cuor loro non piangerebbero certo la caduta degli ayatollah. Ma per agire in Iran servirebbe una coalizione panislamica che oggi è impossibile da costruire, sia per l’eterna rivalità tra Turchia e Arabia Saudita, sia perché nessuno dei due può permettersi un confine diretto con il caos.

E poi c’è la variabile globale: Russia e Cina, pur per motivi diversi, non permetterebbero mai un collasso totale della Repubblica islamica

Troppi interessi strategici, troppi equilibri in gioco.

Dunque, meglio un Iran contenuto. Meglio un Iran confinato nei suoi confini, privo di ambizioni espansionistiche, incapace di destabilizzare il Libano, l’Iraq, la Siria, Gaza e lo Yemen. Meglio una Repubblica islamica che, se non può più minacciare, forse può essere indotta a trattare.

Perché la vera pace non si costruisce solo con la speranza, ma con il coraggio di riconoscere la realtà

E la realtà è questa: un Iran forte e aggressivo è un pericolo per tutti. Un Iran ridimensionato, arginato e sorvegliato, è forse l’unica via per non precipitare in un nuovo conflitto globale.
Chi oggi difende la libertà, deve farlo senza ipocrisie. E con la fermezza di chi ha imparato, dalla storia, che l’ambiguità è sempre il primo passo verso la catastrofe.

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Tags: GRANDE GUERRAIRANISRAELEMEDIO ORIENTEPRIMO PIANO
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