Atto dovuto o atto voluto?
Ci risiamo. Ancora una volta, ancora una divisa, ancora un’indagine “per atto dovuto”. Questa volta a Grottaglie, dove gli agenti intervenuti in una situazione drammatica si ritrovano ufficialmente sotto inchiesta. Un copione che conosciamo fin troppo bene: il caso diventa mediatico, l’apertura di un fascicolo diventa automatica, e nel giro di poche ore il sospetto si insinua. Non per i fatti, non per una prova, ma per prassi.
E allora vale la pena dirlo con chiarezza, non è più possibile accettare che questo meccanismo venga definito normale o peggio per tutelare gli agenti, scagionandoli preventivamente
Si è casualmente conclusa solo pochi giorni fa il caso del maresciallo di Rimini. Prosciolto. Anche lui, ma dopo sei mesi di “indagini” per un caso chiarissimo e con molti testimoni, era stato indagato “per atto dovuto” dopo aver reagito a un uomo armato che aveva già ferito più persone. Sei mesi – non sei ore – trascorsi sotto sospensione, sotto indagine, sotto pressione. Per poi sentirsi dire, come se nulla fosse, che “non c’erano gli estremi per procedere”.
Il danno però resta. Personale, umano, professionale. Ed è un danno che ogni volta si ripete, quasi fosse inevitabile. Ma non lo è. Non può esserlo.
La verità dietro l’atto dovuto
La retorica dell’“atto dovuto” è diventata un alibi. Una giustificazione per coprire un vuoto legislativo e culturale. Dietro ogni “atto dovuto” c’è una scelta precisa: quella di trasformare un intervento legittimo in una potenziale colpa da dimostrare innocente solo dopo mesi, quando l’attenzione si sarà spenta e la dignità sarà stata messa a dura prova, con provvedimenti di sospensione.
Agenti che muoiono e rischiano la vita è bene rammentarlo per €1.500 al mese e quando capita la tragedia i colleghi che non sono morti vengono indagati ” per atto dovuto “, ma vi sembra normale?
E allora diciamolo senza giri di parole: quello che si chiama atto dovuto, in realtà, è un atto voluto. Una scelta che sembra avere più che a che fare con la prudenza giudiziaria e il timore dell’opinione pubblica, che con la necessità di accertare dei fatti, con la volontà di qualche ” zelante” procura di fare vedere il proprio zelo appunto.
Nel frattempo, però, chi indossa una divisa si ritrova da solo, sospeso e sotto accusa. Senza che vi sia ancora stato un solo elemento che giustifichi quel peso.
Una riforma è necessaria, subito
Lo abbiamo già scritto e lo ribadiamo con forza: serve una riforma. Subito.
Serve una norma chiara, che stabilisca limiti e garanzie precisi per i casi in cui un agente interviene nell’esercizio delle proprie funzioni. Non si chiede impunità. Si chiede solo che il sistema smetta di trattare chi difende i cittadini come se fosse un sospetto da gestire con cautela.
Una soluzione esiste:
Una fase preliminare protetta, che permetta di distinguere i casi davvero controversi da quelli in cui l’indagine è solo una formalità.
L’impossibilità di sospendere automaticamente un agente, in assenza di evidenze concrete.
La responsabilità dell’amministrazione e non del singolo, quando si parla di doveri d’ufficio
Non possiamo più permetterci che ogni caso venga gestito come se fossimo all’anno zero, come se ogni volta fosse la prima volta.
Non basta più dire “così funziona”
Il caso di Grottaglie – come quello di Rimini, e tanti altri ancora – ci dice una cosa sola: così non può più funzionare.
Non possiamo più fingere che sia normale che chi ha difeso delle vite debba poi difendersi dalla giustizia. Non possiamo più lasciare soli gli agenti che agiscono nel caos, con coraggio, assumendosi la responsabilità di scelte difficili.
E non possiamo più assistere in silenzio al rituale di un’indagine che arriva puntuale come la burocrazia, ma che pesa come una condanna
Il tempo delle parole è finito. Serve una legge. Serve adesso. Serve per ridare dignità e fiducia a chi, ogni giorno, è chiamato a difendere la nostra sicurezza e libertà è ora di tutelare chi la legge la difende non chi la offende.
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