È scomparso a 94 anni Giorgio Forattini, un uomo che, con la sua matita acuminata, ha saputo raccontare la politica italiana come pochi altri: non solo ridendone, ma mettendo a nudo il potere, l’ipocrisia, la solennità e spesso, quel senso di “residenza” nel Palazzo che oggi appare smarrito. In un tempo in cui la classe dirigente ancora pareva investita di un ruolo istituzionale — non priva di criticità, certo — ma comunque dotata di un peso, di un onore da difendere, Forattini operava con la satira come strumento di verità: gioco, provocazione, ma anche allarme.
La sua era un’Italia in cui il Palazzo — istituzioni, politici, correnti — era trattato con rispetto sì, ma anche con diffidenza: quel rispetto che viene prima della battuta, quel senso di responsabilità che precede la caricatura
Era l’epoca in cui la satira poteva davvero colpire il cuore del potere, perché il potere aveva un cuore, una forma, un volto. Oggi quel volto sembra essersi dissolto: la politica è diventata un brand, un mondo liquido, una messinscena che non è più nemmeno degna di essere parodiata con la stessa lucidità.
Forattini aveva intuito questa tensione: che la dissacrazione non è banale trasgressione, ma esigenza democratica
Dissacrare significa togliere agli uomini e alle istituzioni l’alibi della sacralità, significa ricordare che anche chi comanda risponde — o dovrebbe rispondere.
Lui lo fece con il tratto, col sorriso mordace, con l’ironia che non è mai superficiale. Riduceva un ministro, un leader, un partito a simbolo, a forma plastica, così che il lettore potesse vederne la fragilità, il ridicolo, la ferita
Ecco perché la sua scomparsa lascia un vuoto doppio: perde un artista, certo, ma anche un testimone di un’epoca. Un’epoca che molti giovani faticano a comprendere — perché non quella che vivono, non il linguaggio, non il potere. Per loro la politica ha perso gravità, i soggetti istituzionali sono nebulosi, la satira sembra ieri, e forse in parte è davvero ieri.
Ecco: Forattini va valutato in base allo spessore della politica che ha saputo abbattere, alla forza della sua ironia che non si accontentava di ridere, ma pretendeva di svegliare
Oggi, leggendo una sua vignetta, possiamo provare nostalgia — per quel mondo, per quel Palazzo che c’era e che forse non c’è più — e al tempo stesso gratitudine: perché ci ha insegnato che anche quando il potere è grande, può (e deve) essere messo in ridicolo. Non per giocare, ma per ricordare che è umano, che è fallibile, che è esposto.
In un’Italia che sembra aver smarrito la serietà della classe politica — o meglio: l’idea che la classe politica debba essere seria — Forattini ci lascia una lezione. La satira non è solo intrattenimento: è custode del significato pubblico.
E quando quel significato pubblico si assottiglia, quando la politica diventa teatro senza spettatori consapevoli, serve ancora più forte la penna che grida, la vignetta che ironizza, lo sguardo che dissacra
Addio, maestro della satira. Con te se ne va una stagione, forse, e con essa una parte della nostra capacità di osservare il potere davvero. Ma resta l’esempio, e resta la voglia — per chi verrà dopo — di non accontentarsi del “palazzo che si era” e che non è più.
