Sciopero per Gaza: grande appello, piccolo blocco, zero distanze da Hamas

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Sciopero per Gaza: grande appello, piccolo blocco, zero distanze da Hamas

Oggi, 22 settembre 2025, l’Italia si è svegliata con la voce alta, le piazze piene ma non quanto desiderato daglivorganizzatori forse, i cortei in decine di città e gli slogan di solidarietà per Gaza e sottolineiamo solo per Gaza .

Ma alla sera, la domanda resta: quanto è stato utile tutto questo per chi davvero soffre nella Striscia? E quanto è servito per i cittadini qui?

Le immagini della giornata raccontano un Paese non bloccato ma messo a ferro e fuoco: dalla Stazione Centrale di Milano, dove decine di manifestanti hanno tentato di sfondare le entrate e la polizia ha risposto con gas lacrimogeni; ai porti di Genova e Livorno, dove i varchi sono stati bloccati da operai portuali preoccupati dal ruolo logistico dell’Italia nei trasferimenti verso Israele; dalle autostrade e tangenziali bloccate a Bologna e Roma fino alle scuole semivuote, università occupate e trasporti pubblici in tilt. Le sigle sindacali di base (USB, CUB, SGB) rivendicano adesioni rilevanti, il governo contesta che l’impatto sia stato modesto in diversi settori e anche se disagi ci sono stati perché volutamente studiati certo il Paese non si è fermato.

Inadatti una cosa è certa: l’azione non ha “bloccato il Paese” nel senso pieno che i suoi promotori avevano evocato. Molti servizi hanno funzionato, le fasce garantite nei trasporti hanno impedito un collasso totale, allarmi e stime numeriche oscillano, e gli effetti concreti sembrano aver colpito più la percezione pubblica che la realtà delle relazioni internazionali o del conflitto

Da un punto di vista squisitamente politico lo sciopero è servito a rendere identitario l’appoggio per Gaza attuale, l’intenzione è di fare cresceva la protesta, ma non si è visto un chiaro distanziarsi da Hamas – nonostante che, anche in ambienti internazionali, persino la Lega Araba abbia chiesto che si faccia distinzione tra resistenza civile, diritti umani e le azioni del movimento islamista che eda condannare senza se e senza ma e che non potrà sedere e rappresentare il popolo palestinese.

In mancanza di ciò, il rischio è che la manifestazione identitaria si riduca a un mero simbolo che rende più difficile il dialogo, non più credibile agli occhi di chi chiede chiarezza: “solidarietà” sì, ma non senza condizioni

Sul piano del popolo palestinese, poi, restano i dubbi amari. Le bombe continuano a cadere, gli ospedali restano inagibili, i corridoi umanitari bloccati. Quale vantaggio reale può derivare da proteste che lasciano intatto il dispositivo della guerra? È lecito domandarsi se tali manifestazioni, pur grintose, non diventino una via d’uscita comoda per chi vuole “fare qualcosa” senza per questo sfidare davvero le responsabilità politiche o militari che potrebbero mutare le sorti dell’assedio.

Insomma, una giornata così ricca di promesse e proclami rischia di diventare una pagina spesa nella cronaca interna senza lasciare tracce incisive sul terreno per chi soffre davvero. Forse era lecito ambire a un gesto più concreto: uno sciopero che non sia solo rumore, uno che testi che la solidarietà può trasformarsi in cambiamento.

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