Ignorantia legis non excusat: il caso di Brescia

Ignorantia legis non excusat: il caso di Brescia

Assolto perché la sua cultura consente di picchiare le donne. Questa la morale che si ricava da una surreale richiesta di archiviazione di un Pubblico Ministero del Tribunale di Brescia a fronte di un procedimento per maltrattamenti in famiglia.

La vicenda di Brescia

La vittima, bengalese di 27 anni, dopo anni e anni di botte e umiliazioni aveva deciso di denunciare l’ex marito, anche lui originario del Bangladesh. In sede processuale, il pubblico ministero ha richiesto l’assoluzione dell’imputato sul presupposto che i comportamenti contestati sarebbero stati frutto dell’impianto culturale nel quale questi è vissuto e non della volontà di svilire e annichilire la coniuge. Ciò in quanto la disparità tra uomo e donna è un tratto tipico della cultura bengalese, e come tale – udite, udite!! – persino accettato in origine dalla vittima.

Insomma, cara donna, sapevi a cosa andavi incontro, e quindi adesso non lamentarti!

Questo è quello che pare emergere dalla richiesta di assoluzione del PM, che fortunatamente è stata respinta dal Gip che ha ordinato alla Procura la formulazione dell’imputazione coatta.

Un’impostazione sbagliata

Vedremo come andrà il processo. L’imputato, cui spetta non solo la presunzione di non colpevolezza ma tutte le garanzie processuali del caso, avrà l’opportunità di difendersi nelle aule del Tribunale. Ma la vicenda serve a fare luce su una impostazione culturale – quella del PM – anni luce lontana da una normale e corretta amministrazione della giustizia in Italia (in Bangladesh ci sono delle speranze!!).

In un contesto drammatico nel quale già 80 donne dall’inizio dell’anno sono state trucidate da chi diceva di amarle e dove giustamente “urbi et orbi” si invoca un surplus di tutela, quanto esposto dal magistrato dell’accusa lascia l’amaro in bocca.

La vittima diventa colpevole e il colpevole la fa franca protetto da un ordinamento culturale che se processualmente potrebbe costituire un attenuante – magari da considerare in punto di commisurazione della pena – di certo non può condurre ad una assoluzione.

Forzare il ragionamento giuridico, sinceramente non è accettabile per un magistrato chiamato all’applicazione della legge italiana (non bengalese).

Integrazione possibile?

Il tema, tuttavia, al netto della specifica vicenda, è spinoso e complicato, ma dalla soluzione dipende il mondo di gestire l’integrazione tra italiani e immigrati. Queste persone sovente sono orgogliosi latori di una cultura talvolta assai profondamente diversa da quella italiana con la quale da una parte bisogna interagire, ma dall’altra manifestare ferma intransigenza quando occorre. In particolar modo, nel campo del diritto, dove evidentemente il tema non si estrinseca solo riguardo alla diversità di usanze e credo religiosi, ma per l’appunto spiega le sue conseguenza in tema di tutela della persona.

Ebbene, non può sottacersi che in una società multietnica non vi può essere spazio per un multiculturalismo che bypassa la legge italiana.

Il primato della legge italiana: valore non negoziabile

Questo è un punto fermo non negoziabile. La legge è legge, e quella che si applica sul territorio italiano è la legge italiana! Ciò che non viola l’ordinamento è ammesso, al contrario ciò che si pone in contrasto con esso, va punito!

Come ha giustamente notato, solo qualche mese fa, lo stesso Tribunale di Brescia in una vicenda analoga, è onere del migrante quello di verificare che il proprio comportamento (non il suo modo di pensare, vedere il mondo, credere ecc., ma il modo di agire sì!! ) sia conforme o meno alle leggi dello Stato Italiano.

“Ignorantia legis non excusat”!

Gli evidenti rischi della parcellizzazione del diritto

Diversamente, si apre la porta a un diritto di nicchia, a enclave autonome ed extraterritoriali che pretendono di amministrare le loro comunità secondo le leggi di proveniente.

(Se tale esito pare eccessivo, si consigliano delle illuminanti letture in merito a ciò che avviene in alcuni quartieri di Londra e di Parigi).

E questo, ben si intende, conduce a una inaccettabile frammentazione e parcellizzazione tribale delle regole di convivenza civile. Queste regole sono ciò che tiene unita una comunità, la fa sopravvivere, la difende dall’anarcoide “homo homini lupus” ed è per questo che queste stesse regole sono un bene in sé da salvaguardare e tutelare.

Il dovere e la responsabilità di chi rappresenta le Istituzioni

Ritenere – e a maggior ragione giustificare – che ciascuno possa essere scusato in base alla propria cultura di origine, indipendentemente dallo Stato in cui si trova (e dall’ordinamento che ne dirige la vita), è pericoloso e sbagliato. Quando tale giustificazione proviene da chi dovrebbe difendere la legge, la cosa diventa persino grottesca.

E adesso, con quale coraggio denunceranno?

Peraltro, ed è circostanza non di poco conto, se già in Italia gli operatori scontano problemi enormi connessi con la difficoltà che le vittime di violenza hanno nel denunciare i loro aguzzini, in alcune comunità immigrate – dove la disparità tra uomo e donna è assai più radicata – quanta maggior difficoltà avranno le donne a denunciare?

Quale fiducia potranno avere nelle istituzioni italiane se un autorevole membro di esse – il PM non è proprio l’ultima ruota del carro – si permette ragionamenti di questo tipo?

Il c.d. lavoro culturale

Ecco quando si parla di “lavoro culturale” (termine assai abusato e al momento privo di connotati specifici nella bocca di tanti Soloni), bisognerebbe ricordarsi che siamo tutti chiamati a svolgerlo, ciascuno nel suo “piccolo universo”. E siccome, il “piccolo universo” di un Pubblico Ministero è molto meno piccolo di quello di qualsiasi persona, è bene che chi riveste questo incarico se ne ricordi, e si ricordi la responsabilità collegata al suo ruolo istituzionale.

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