Alle ore 18,10 di mercoledì 8 settembre 1943 un’Alfa Romeo militare, proveniente da Via Veneto, dopo aver percorso la breve salita di via XXIV Maggio, entrò nel palazzo del Quirinale.
I corazzieri di servizio resero gli onori militari perché le sentinelle avevano tempestivamente segnalato la macchina; era quella di Umberto di Savoia. Infatti sul parafango sinistro dell’auto sventolava il gagliardetto azzurro con la corona reale, emblema del Principe ereditario, mentre su quello destro garriva un altro gagliardetto, quello di maresciallo d’Italia: quattro stelle d’oro su campo azzurro.
Umberto di Savoia risiedeva ad Anagni da appena una settimana.
Ad Anagni
Dal 2 settembre, infatti, egli aveva trasferito il suo comando da Sessa Aurunca in quest’altra località distante non più di sessanta chilometri dalla Capitale e celebre per lo schiaffo che Guglielmo di Nogaret, cancelliere di Filippo il Bello, diede con la mano inguantata di ferro, al vecchio pontefice Bonifacio VIII.
Quel trasferimento dettato non da necessità militari ma dalla piega sempre più tragica che andavano assumendo gli avvenimenti sotto l’incalzante pressione del nemico angloamericano già profondamente penetrato nel nostro territorio dopo i riusciti sbarchi in Sicilia e in Calabria.
In realtà il Principe di Piemonte era sempre stato, suo malgrado, un comandante simbolico, sin dalla dichiarazione della guerra. Con la scusa che la sua vita era preziosa, e le superiori esigenze imponevano determinati movimenti ed iniziative, egli era all’oscuro da ogni disegno operativo, tanto per ordine di Mussolini quanto per tacito consenso dei vari Capi di Stato Maggiore.
L’8 settembre 1943 Umberto di Savoia capitò a Roma per caso
Nessuno ha saputo spiegare l’improvvisa venuta del Principe a Roma. Tutti sono stati concordi nell’affermare questa stupefacente verità: il Principe ereditario arrivò in Quirinale non chiamato da nessuno.
Isolato da tutti, nella impossibilità di prendere parte attiva agli avvenimenti che ogni giorno andavano sempre più a precipizio, Umberto di Savoia cercava in tutti i modi di avere notizie, di rendersi esattamente conto di quello che stava succedendo.
Ma finiva sempre, suo malgrado, col cozzare davanti a un muro.
Per questo quando poteva correva a Roma. Qui egli riusciva, di tanto in tanto, a sapere quello che nessuno avrebbe mai pensato di dirgli.
Il 5 settembre andando a messa in una chiesetta di campagna vicino ad Anagni, aveva casualmente incontrato il maresciallo Graziani che abitava nei dintorni, ormai al di fuori della vita politica e militare. Graziani gli aveva detto con le lacrime agli occhi: «Altezza Reale, questa é la sua ora».
Poi Graziani due giorni dopo, il 7 settembre, verso le ore 19, aveva di nuovo cercato il Principe. Fu forse quel colloquio a far decidere la breve corsa a Roma, il giorno successivo?
E’ molto probabile, perché Graziani raccontò al Principe che «qualcuno» gli aveva riferito che erano in corso trattative per un armistizio con gli alleati.
Si tratta di voci, aveva osservato Umberto di Savoia. «A me non risultano vere».
Eppure dal tre settembre il generale Castellano aveva firmato a Cassibile, in nome di Sua Maestà il Re, l’armistizio.
A Roma quell’armistizio segreto era conosciuto da almeno venti persone
Raffaele Guariglia, allora ministro degli Esteri, confessa nelle sue memorie di aver comunicato la notizia non solo ad alcuni membri del Governo ma anche ad altri tre suoi amici, all’ambasciatore italiano in Francia, a Salvatore Contarini e al cardinale Maglione.
L’armistizio era noto inoltre ai tre ministri delle Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica), ai loro segretari particolari, al ministro della Real Casa Acquarone, al colonnello Valenzano, segretario e parente di Badoglio, al figlio dello stesso maresciallo Mario, ai generali Ambrosio, Roatta Carboni, ai loro rispettivi ufficiali addetti.
Insomma due sole persone erano state tenute di proposito all’oscuro di tutto, il Principe di Piemonte e il Primo aiutante di campo generale del Re il generale Paolo Puntoni.
Umberto di Savoia arrivò dunque l’8 settembre in Quirinale per cercare di controllare quanto gli aveva riferito Graziani.
Il 3 settembre, durante la riunione dei ministri al Quirinale, Badoglio aveva firmato un importantissimo telegramma.
Era diretto agli Alleati e confermava la nostra accettazione dell’armistizio, inoltre rinnovava l’assicurazione che al generale Castellano (nostro inviato in Sicilia per concludere le trattative con il generale Smith capo di stato maggiore di Eisenhower) erano stati effettivamente conferiti i pieni poteri per la firma del documento.
Così il generale Castellano aveva potuto, quello stesso giorno, siglare l’armistizio
Intanto a Roma Badoglio, Roatta, Ambrosio e Carboni seguitavano a rimanere tranquilli, sicuri come erano che gli Alleati avrebbero reso noto l’armistizio non prima del giorno 12 settembre.
Invece alle ore 17,30 del giorno 8 Eisenhower mandava un telegramma a Badoglio per imporre al nostro Governo di rendere pubblico l’armistizio entro le ore 20.
In caso contrario non sarebbe stato più valido il documento firmato da Castellano.
Badoglio avvertì subito il Re e contemporaneamente convocò dal Sovrano i ministri della Guerra, della Marina, dell’Aeronautica, nonché pochi altri ufficiali generali.
All’ultimo momento venne mandato a chiamare anche Guariglia, ministro degli Esteri.
Si tenne subito un frettoloso Consiglio della Corona.
Alcuni di fronte al la minaccia di sicure rappresaglie tedesche, avrebbero voluto non riconoscere più come valido l’armistizio, altri invece sostenevano il contrario.
Il Re infine decise: «Oramai non é più possibile cambiare rotta. L’armistizio deve essere accettato».
Mentre venivano prese queste risoluzioni così gravi, il Principe di Piemonte, ignaro di tutto, stava nel suo appartamento.
Nessuno aveva pensato di avvertirlo che a pochi passi da lui si stava tenendo il Consiglio della Corona.
A portargli la notizia dell’armistizio fu il maggiore Campello, suo ufficiale di ordinanza. Campello l’aveva captata » Proprio allora nell’ufficio del Maestro delle Cerimonie, don Ascanio Colonna.
Umberto sussultò, sgranò gli occhi e fu così che dal ministro della Real Casa il Principe ereditario ebbe conferma di un avvenimento già noto in tutto il Quirinale.
La fuga nella notte
Verso le 19,30 Umberto di Savoia chiamò ancora il suo ufficiale dì ordinanza. «Si tenga pronto», gli disse, « perché fra poco rientreremo ad Anagni. Gli altri andranno ad alloggiare al ministero della Guerra. Anche le loro Maestà, passeranno la notte laggiù. Pare», concluse Umberto con la voce velata da tristezza, «che vi sia in via XX Settembre un rifugio più sicuro. A me però questa trasferimento in massa sembra una vera e propria buffonata».
Poco dopo le ore 21 la macchina del Principe entrò al ministero della Guerra dal cancello di via XX Settembre.
I sovrani erano, già arrivati. il Re indossava l’uniforme, la Regina era vestita di nero. Portava una gonna che le arrivava sino ai piedi e un cappellino tondo.
Anche Badoglio era già arrivato. Era in borghese alludendo al proclama da lui inciso in un disco nella sede dell’ EIAR chiedeva: «Come ho parlato? Con voce ferma, vero? ».
Tutti parevano subire gli avvenimenti. Solo Umberto di Savoia era irrequieto.
Vittorio Emanuele continuava a rimanere seduto su un divano, accanto alla Sovrana. Era stanchissimo.
Lui, il vecchio re d’Italia, il vincitore di Vittorio Veneto, doveva starsene là su di un divano in attesa che qualcuno si decidesse a dirgli quello che sarebbe capitato.
Al ministero della Guerra continuavano a giungere notizie contraddittorie. «Verso le due del mattino si cominciarono anche ad udire in lontananza i primi colpi di cannone. Si combatteva alla Magliana. I tedeschi. dunque, avevano tutt’altra intenzione che abbandonare Roma.
Tutte le strade attorno a Roma erano controllate dai tedeschi. Solo la Tiburtina era libera. «Bisogna salvare le loro Maestà », dichiarò enfaticamente Roatta.
Badoglio impallidì. Egli viveva ormai nel costante timore di essere catturato dai tedeschi o ucciso in un attentato.
Badoglio era convinto che i tedeschi avrebbero cercato in tutti i modi di farlo fuori. Per questo motivo appoggiò energicamente la proposta di Roatta che il Re e il Governo lasciassero immediatamente la Capitale.
Anche il Principe ereditario approvò la decisione.
Ma subito aggiunse: «Io rimango. La mia presenza nella capitale in questi momenti è assolutamente necessaria».
Il Re rimase di sasso all’idea di fuggire
In realtà il Sovrano aveva già preso in considerazione l’idea di abbandonare Roma. Il 28 luglio, subito dopo l’arresto di Mussolini, quando si temeva un colpo di mano dei tedeschi, Vittorio Emanuele aveva ordinato al generale Puntoni di predisporre tutto per una eventuale partenza da Roma: «Non voglio correre il rischio di fare la fine del Re del Belgio », aveva detto. «Desidero mettermi in condizione di continuare ad essere il Capo dello Stato, arbitro della mia volontà e della mia libertà. Non ho nessuna intenzione di divenire una marionetta nelle mani di Hitler ».
Ma ora che tale evento si profilava in tutta la sua drammaticità, il Re non sapeva decidersi ad abbandonare la capitale.
Il Re si lasciò convincere a fatica.
Umberto fu una vittima?
Umberto tentò di non partire, cercò in tutti i modi di far capire al padre come la presenza di un membro della casa reale a Roma in quel momento, fosse necessaria, ma il Re tagliò corto, «Verrai con noi. E’ un ordine».
In quell’agitata alba del 9 settembre Umberto fu la vera vittima anche perché fu l’unico a osservare gli avvenimenti con sicurezza ed intuito, con lungimiranza.
Quando alle 05,30 del mattino la macchina condotta dal sergente maggiore Cozzani lasciò il ministero della Guerra con a bordo il Principe di Piemonte e i suoi due ufficiali d’ordinanza Campello e Litta, il destino di Casa Savoia era deciso. Forse Umberto fu il solo a capirlo, Mentre la sua Alfa Romeo imboccava la Tiburtina, egli fu visto prendersi la testa fra le mani e udito sospirare disperatamente: «Dio, che situazione! ».
Giorgio Pillon, tratto dal sito “www.reumberto.it”
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